Buona notte Pianta
Moderatori: Gaetano Intile, Robennskii
Buona notte Pianta
Un vecchio racconto, finalista a un paio di concorsi, che - come a volte accade - rimane una pietra mililare nel nostro cammino tra vocali e consonanti
Di quella pianta Agata non aveva mai saputo il nome: l'aveva trovata lì, su un terrazzo assolato incastrato tra i tetti tegolosi del centro storico, quando era venuta a vivere in quella casa al terzo piano senza ascensore.
Dopo oltre vent’anni passati a cercare in giro per il mondo avventure per lettori pavidi, la nostalgia per il piccolo mondo da cui era partita, improvvisa, inaspettata e insistente come una mosca settembrina, aveva convinto Agata che forse era giunto il momento di fermarsi, magari solo per un po’.
Il vecchio appartamento fine anni ‘50, completamente ammobiliato, ingombrante eredità di un vecchio amico che voleva disfarsene in fretta, l’aveva stregata fin dal primo momento in cui vi aveva messo piede: profumo di cera per mobili, un vago sentore di lavanda, i pavimenti in graniglia, libri, suppellettili, tappeti…
In una stanza, da cui usciva un leggero sentore di naftalina, c’erano un armadio e alcuni bauli stipati di abiti, pile di vecchie riviste, alcune bambole di biscuit finemente agghindate e scatole, tante scatole ben impilate, che parevano promettere sorprese di ogni tipo. Fu proprio in quella stanza che Agata sentì di essere finalmente a casa, una sensazione tanto intensa da darle le vertigini.
Era riuscita a mascherare il momento con sorrisi di circostanza, ritrovandosi in gola un gran urlo di gioia quando l’amico, senza rendersene conto, le risolse il problema di informarsi sul destino di arredi e suppellettili:
«Come vedi c’è una montagna di mobili vecchi, carabattole e cianfrusaglie di ogni specie. Tutto compreso nel prezzo. Tieni quello che ti serve e del resto fanne quello che meglio credi. La mia prozia Ebe non buttava niente e se pensi che aveva 95 anni… buon lavoro!»
Una casa lasciata incustodita che diventava sua era da tempo un sogno ricorrente, che s’interrompeva sempre quando lei era sul punto di chiudersi la porta alle spalle e per tutta la giornata si sentiva stretta da un nodo di nostalgia, di rammarico per quel sogno interrotto.
Finalmente, nel severo studio di un notaio, una serie interminabile di firme e un pesante mazzo di chiavi trasformarono il sogno in realtà.
La casa pareva chiamarla a gran voce, promettendole cassetti pieni di ricordi, qualche piccolo segreto e tanta vita.
La vita di altri.
La vita di altri per lei, che per fuggire da una realtà che sentiva stretta, incolore e piatta, aveva trovato nello scrivere l’unico modo per sentirsi parte vera di qualcosa. Aveva condiviso impressioni di viaggio, la bellezza di culture lontane, la paura della guerra e la serenità di gente che godeva del poco come fosse una ricchezza immensa. Ma per Agata finivano sempre per essere solo momenti slegati, vissuti e poi archiviati.
Eppure, riusciva a trasmettere emozioni ai suoi lettori e il successo ottenuto aveva stupito lei per prima.
Agata trascorse i primi giorni a cercare i propri spazi in stanze accoglienti, in attesa del momento giusto per dare aria ai tanti libri sparsi in ogni angolo, per aprire armadi e cassetti e conoscere finalmente Ebe: sarebbero diventate amiche, se lo sentiva sulla pelle.
Arrivò il momento di mettersi all’opera. Il sano lavoro di braccia la lasciava impolverata e indolenzita ma leggera e senza pensieri: niente orologio, telefono o computer che le ricordassero lo scorrere delle ore. Agata si accorse con sorpresa che, nonostante le mille cose da fare, le rimaneva sempre un po’ di tempo per una passeggiata, per leggere il giornale da cima a fondo; anche per non far niente.
Un pomeriggio, in una rientranza quasi nascosta del terrazzo, trovò una pianta, messa a dimora in una grossa latta di conserva di pomodoro e libera di crescere senza tutori o graticci cui aggrapparsi. Si chiese chi se ne fosse occupato dopo la morte della padrona di casa: forse la portinaia… ma fu un pensiero veloce, era una pianta e sopravviveva, come tante piante.
Verso mezzanotte scoppiò un temporale e Agata si scoprì preoccupata per la pianta: dopo qualche tentennamento, visto che di rimettersi a dormire proprio non se ne parlava, andò a controllare e la trovò tranquilla - strano aggettivo per una pianta, ma tant’è - e ben riparata dal vento.
Agata ebbe la netta impressione che la pianta si godesse il temporale, solleticata dagli spruzzi leggeri delle gocce che rimbalzavano sul parapetto del terrazzo.
«Su, cocca, vieni in casa, prima di affogare! Il temporale piace anche a me, ma non esageriamo.»
Il giorno dopo portò la pianta in cucina, la travasò in una ciotola di coccio:
«Pianta, ti chiamerò Pianta. Ecco qua, del buon terriccio nuovo, o almeno spero sia buono: non l’ho assaggiato, ma l’aspetto è appetitoso! Ti piace la battuta? No vero? Neanche a me! E ora un bel sottovaso e voilà, in salotto. Perfetto: poltrona, libri, Pianta. Adesso scusa, ma ho da fare.»
Passò la giornata ad aprire scatole sue: documenti, fotografie, cartoline che le ricordavano la famiglia da cui si era allontanata senza una ragione precisa, lasciando che la lontananza e il lavoro facessero sbiadire sentimenti e ricordi.
Mentre riponeva in un cassetto alcune fotografie, Pianta perse una foglia, che andò a posarsi sul tavolino, molliccia e pallida.
«Non preoccuparti, è il cambio del vaso: due o tre giorni e tutto torna a posto.»
Tempo qualche giorno Pianta perse altre foglie mentre i piccoli fiorellini gialli sembrarono rimpicciolire.
«Eh, ho sbagliato posto, come sei permalosa! Vediamo: meno acqua e più luce. Che ne dici della cucina, accanto alla finestra? E di qualche goccia di vitamine, beh di concime?»
Nel frattempo altri scatoloni, rimasti per anni in deposito, riversarono sul tappeto del soggiorno le risate delle sorelle, i borbottii del nonno, le aspettative infrante di suo padre. Come in tante altre occasioni, preferì accantonare l’idea di capire cosa l’avesse allontanata dalla famiglia e reso aridi e scialbi i loro brevi incontri: finì per riporre in un baule tutto quello che la infastidiva.
La pianta intanto continuava a deperire.
«Senti, Pianta, io ti parlo, ti nutro e disseto, abbiamo provato un sacco di posti… riparati, soleggiati, freschi, ma tu proprio non collabori! Guardati, guardati un po’: foglie pallide, rametti secchi…»
L’idea di parlare con una pianta non l’aveva mai nemmeno sfiorata, ma nella vita si cambia, di punto in bianco si diventa consapevoli di tanti piccoli cambiamenti che in altri momenti passerebbero inosservati, ma improvvisamente entrano di prepotenza nel quotidiano e trovano un loro posto.
Anche avere una pianta per amica.
Agata si ritrovò così, nel silenzio avvolgente e morbido della vecchia casa, a chiacchierare con la piantina, spostandola da una stanza all’altra: finì per raccontarle i suoi pensieri più intimi, i ricordi più struggenti, i dubbi e le certezze di una vita. Arrivò a raccontarle barzellette, a mostrarle le foto di un’Agata travestita da indiano: cercò persino di farle capire il capogiro del primo bacio e il dispiacere di un addio.
Pianta si riprese: sembrava assorbire dalle parole di Agata e dalle sue emozioni, finalmente libere, il nutrimento per rafforzare le radici.
Un mattino Agata aprì un’ultima scatola: conteneva le lettere che i genitori e le sorelle le avevano scritto in tanti anni e a cui raramente aveva risposto. Seduta per terra le lesse a Pianta, lasciandosi solleticare dalle foglioline mosse da una leggera corrente d’aria che profumava di tiglio, di pane appena sfornato, di bucato steso al sole.
Solo quando ripose nella scatola l’ultima lettera si accorse di quante nuove foglioline avesse messo Pianta negli ultimi giorni e dei boccioli ormai prossimi a schiudersi.
«Visto che è andato tutto bene? Scommetto che non avevi fiducia nel mio pollice verde? Detto tra me e te, neanch’io. Magari potrei trovarti della compagnia: niente di impegnativo, piante robuste e semplici, come te. Sai cosa facciamo? Una capatina dal fioraio. Mi faccio dire che pianta sei e con quali vai d’accordo, poi decidiamo: un colpo di foglia per un sì e due per un no.»
Pianta, come suo solito, se ne restò silenziosa e con una certa aria di sufficienza.
Agata la fissò a lungo, quasi cercandone gli occhi in cui leggere la risposta a una domanda che da qualche ora lo stava punzecchiando.
«Adesso ho capito, la tua era tutta una tattica eh! Vecchia imbrogliona! Qui non va bene, là nemmeno. I libri no, le riviste neanche. Ti interessavano solo le vecchie foto, i miei ricordi, queste lettere.»
Pianta non rispose neanche stavolta, persa anche lei nei ricordi di Ebe, che per una decina di anni l’aveva accudita, aiutandola ogni primavera a rinnovarsi. Ebe non amava molto chiacchierare con gli umanetti, come chiamava parenti e amici: li trovava noiosi e prevedibili. Preferiva metterli alla prova con indovinelli, proverbi, rebus, quasi una caccia al tesoro per scoprirne pregi e difetti senza darlo a vedere. La vecchia amica si sarebbe divertita con Agata, l’avrebbe accompagnata passo dopo passo a quel momento, senza che lei se ne accorgesse, con caparbietà.
Agata fissò ancora per qualche istante Pianta, poi la riportò in terrazza, la rimise nella latta di conserva, accanto al solito muro:
«Goditi il sole, vecchia mia! Io esco, tornerò verso sera e ti prometto che avrò molte cose da raccontarti.»
Prese dal mucchietto delle lettere l’ultima, scritta da sua madre con una grafia un po’ tremolante: l’indirizzo non era molto lontano e decise di arrivarci a piedi, passando per le piccole vie del centro, assaporando il piacere di scoprire qualche scorcio di città che non era ancora cambiato.
«Scusa, Pianta, ma devo proprio chiederti un favore. Ho trovato un piccolo libro di poesie, che spero piacciano ancora a mia madre. Non ti dispiace, vero, se prendo una foglia delle tue come segnalibro? Così anche tu la potrai conoscere.»
Forse fu solo colpa di una folata di vento o forse era destino che Pianta perdesse proprio in quel momento una foglia, ma Agata volle credere che fosse il dono di una vecchia amica.
«Grazie, Pianta, sapevo che avresti capito. Vedrai come staremo bene assieme: avrò tante storie nuove da scrivere e tu sarai la prima ad ascoltarle.»
Quando Agata tornò era ormai sera e si sentiva un’altra persona, sollevata e serena.
Niente rimproveri per i lunghi silenzi, niente recriminazioni per essere stata assente in momenti difficili, ma un interminabile abbraccio dei suoi genitori l’avevano aiutata a scrollarsi di dosso gli ultimi dubbi.
Non era una persona insensibile agli affetti, egoista, come spesso si era trovata a giudicarsi, ma una donna che aveva voluto mettere alla prova la sua libertà, che aveva fatte sue le parole dei genitori: “La vita è la tua, fai quello che credi sia meglio per te e abbine cura”.
Erano orgogliosi di lei, l’avevano amata profondamente e compreso le ragioni del suo vagabondare, ma Agata non aveva mai dato loro l’occasione per esternare quello che provavano per questa figlia un po’ ribelle e tanto ostinata.
Si sedette accanto a Pianta, le raccontò per filo e per segno ogni momento di quella giornata così unica e irripetibile, poi si addormentò su una vecchia sdraio, stanca ma serena come non le capitava da un’eternità.
Forse fu solo la brezza della sera o magari un sogno particolarmente intenso, ma Agata ebbe nettissima l’impressione di una carezza sulla mano, una carezza che ricordava l’aprirsi di una foglia, la leggerezza di un piccolo ricciolo di edera che cerca un nuovo appiglio.
«Buona notte, Pianta e… grazie.»
Di quella pianta Agata non aveva mai saputo il nome: l'aveva trovata lì, su un terrazzo assolato incastrato tra i tetti tegolosi del centro storico, quando era venuta a vivere in quella casa al terzo piano senza ascensore.
Dopo oltre vent’anni passati a cercare in giro per il mondo avventure per lettori pavidi, la nostalgia per il piccolo mondo da cui era partita, improvvisa, inaspettata e insistente come una mosca settembrina, aveva convinto Agata che forse era giunto il momento di fermarsi, magari solo per un po’.
Il vecchio appartamento fine anni ‘50, completamente ammobiliato, ingombrante eredità di un vecchio amico che voleva disfarsene in fretta, l’aveva stregata fin dal primo momento in cui vi aveva messo piede: profumo di cera per mobili, un vago sentore di lavanda, i pavimenti in graniglia, libri, suppellettili, tappeti…
In una stanza, da cui usciva un leggero sentore di naftalina, c’erano un armadio e alcuni bauli stipati di abiti, pile di vecchie riviste, alcune bambole di biscuit finemente agghindate e scatole, tante scatole ben impilate, che parevano promettere sorprese di ogni tipo. Fu proprio in quella stanza che Agata sentì di essere finalmente a casa, una sensazione tanto intensa da darle le vertigini.
Era riuscita a mascherare il momento con sorrisi di circostanza, ritrovandosi in gola un gran urlo di gioia quando l’amico, senza rendersene conto, le risolse il problema di informarsi sul destino di arredi e suppellettili:
«Come vedi c’è una montagna di mobili vecchi, carabattole e cianfrusaglie di ogni specie. Tutto compreso nel prezzo. Tieni quello che ti serve e del resto fanne quello che meglio credi. La mia prozia Ebe non buttava niente e se pensi che aveva 95 anni… buon lavoro!»
Una casa lasciata incustodita che diventava sua era da tempo un sogno ricorrente, che s’interrompeva sempre quando lei era sul punto di chiudersi la porta alle spalle e per tutta la giornata si sentiva stretta da un nodo di nostalgia, di rammarico per quel sogno interrotto.
Finalmente, nel severo studio di un notaio, una serie interminabile di firme e un pesante mazzo di chiavi trasformarono il sogno in realtà.
La casa pareva chiamarla a gran voce, promettendole cassetti pieni di ricordi, qualche piccolo segreto e tanta vita.
La vita di altri.
La vita di altri per lei, che per fuggire da una realtà che sentiva stretta, incolore e piatta, aveva trovato nello scrivere l’unico modo per sentirsi parte vera di qualcosa. Aveva condiviso impressioni di viaggio, la bellezza di culture lontane, la paura della guerra e la serenità di gente che godeva del poco come fosse una ricchezza immensa. Ma per Agata finivano sempre per essere solo momenti slegati, vissuti e poi archiviati.
Eppure, riusciva a trasmettere emozioni ai suoi lettori e il successo ottenuto aveva stupito lei per prima.
Agata trascorse i primi giorni a cercare i propri spazi in stanze accoglienti, in attesa del momento giusto per dare aria ai tanti libri sparsi in ogni angolo, per aprire armadi e cassetti e conoscere finalmente Ebe: sarebbero diventate amiche, se lo sentiva sulla pelle.
Arrivò il momento di mettersi all’opera. Il sano lavoro di braccia la lasciava impolverata e indolenzita ma leggera e senza pensieri: niente orologio, telefono o computer che le ricordassero lo scorrere delle ore. Agata si accorse con sorpresa che, nonostante le mille cose da fare, le rimaneva sempre un po’ di tempo per una passeggiata, per leggere il giornale da cima a fondo; anche per non far niente.
Un pomeriggio, in una rientranza quasi nascosta del terrazzo, trovò una pianta, messa a dimora in una grossa latta di conserva di pomodoro e libera di crescere senza tutori o graticci cui aggrapparsi. Si chiese chi se ne fosse occupato dopo la morte della padrona di casa: forse la portinaia… ma fu un pensiero veloce, era una pianta e sopravviveva, come tante piante.
Verso mezzanotte scoppiò un temporale e Agata si scoprì preoccupata per la pianta: dopo qualche tentennamento, visto che di rimettersi a dormire proprio non se ne parlava, andò a controllare e la trovò tranquilla - strano aggettivo per una pianta, ma tant’è - e ben riparata dal vento.
Agata ebbe la netta impressione che la pianta si godesse il temporale, solleticata dagli spruzzi leggeri delle gocce che rimbalzavano sul parapetto del terrazzo.
«Su, cocca, vieni in casa, prima di affogare! Il temporale piace anche a me, ma non esageriamo.»
Il giorno dopo portò la pianta in cucina, la travasò in una ciotola di coccio:
«Pianta, ti chiamerò Pianta. Ecco qua, del buon terriccio nuovo, o almeno spero sia buono: non l’ho assaggiato, ma l’aspetto è appetitoso! Ti piace la battuta? No vero? Neanche a me! E ora un bel sottovaso e voilà, in salotto. Perfetto: poltrona, libri, Pianta. Adesso scusa, ma ho da fare.»
Passò la giornata ad aprire scatole sue: documenti, fotografie, cartoline che le ricordavano la famiglia da cui si era allontanata senza una ragione precisa, lasciando che la lontananza e il lavoro facessero sbiadire sentimenti e ricordi.
Mentre riponeva in un cassetto alcune fotografie, Pianta perse una foglia, che andò a posarsi sul tavolino, molliccia e pallida.
«Non preoccuparti, è il cambio del vaso: due o tre giorni e tutto torna a posto.»
Tempo qualche giorno Pianta perse altre foglie mentre i piccoli fiorellini gialli sembrarono rimpicciolire.
«Eh, ho sbagliato posto, come sei permalosa! Vediamo: meno acqua e più luce. Che ne dici della cucina, accanto alla finestra? E di qualche goccia di vitamine, beh di concime?»
Nel frattempo altri scatoloni, rimasti per anni in deposito, riversarono sul tappeto del soggiorno le risate delle sorelle, i borbottii del nonno, le aspettative infrante di suo padre. Come in tante altre occasioni, preferì accantonare l’idea di capire cosa l’avesse allontanata dalla famiglia e reso aridi e scialbi i loro brevi incontri: finì per riporre in un baule tutto quello che la infastidiva.
La pianta intanto continuava a deperire.
«Senti, Pianta, io ti parlo, ti nutro e disseto, abbiamo provato un sacco di posti… riparati, soleggiati, freschi, ma tu proprio non collabori! Guardati, guardati un po’: foglie pallide, rametti secchi…»
L’idea di parlare con una pianta non l’aveva mai nemmeno sfiorata, ma nella vita si cambia, di punto in bianco si diventa consapevoli di tanti piccoli cambiamenti che in altri momenti passerebbero inosservati, ma improvvisamente entrano di prepotenza nel quotidiano e trovano un loro posto.
Anche avere una pianta per amica.
Agata si ritrovò così, nel silenzio avvolgente e morbido della vecchia casa, a chiacchierare con la piantina, spostandola da una stanza all’altra: finì per raccontarle i suoi pensieri più intimi, i ricordi più struggenti, i dubbi e le certezze di una vita. Arrivò a raccontarle barzellette, a mostrarle le foto di un’Agata travestita da indiano: cercò persino di farle capire il capogiro del primo bacio e il dispiacere di un addio.
Pianta si riprese: sembrava assorbire dalle parole di Agata e dalle sue emozioni, finalmente libere, il nutrimento per rafforzare le radici.
Un mattino Agata aprì un’ultima scatola: conteneva le lettere che i genitori e le sorelle le avevano scritto in tanti anni e a cui raramente aveva risposto. Seduta per terra le lesse a Pianta, lasciandosi solleticare dalle foglioline mosse da una leggera corrente d’aria che profumava di tiglio, di pane appena sfornato, di bucato steso al sole.
Solo quando ripose nella scatola l’ultima lettera si accorse di quante nuove foglioline avesse messo Pianta negli ultimi giorni e dei boccioli ormai prossimi a schiudersi.
«Visto che è andato tutto bene? Scommetto che non avevi fiducia nel mio pollice verde? Detto tra me e te, neanch’io. Magari potrei trovarti della compagnia: niente di impegnativo, piante robuste e semplici, come te. Sai cosa facciamo? Una capatina dal fioraio. Mi faccio dire che pianta sei e con quali vai d’accordo, poi decidiamo: un colpo di foglia per un sì e due per un no.»
Pianta, come suo solito, se ne restò silenziosa e con una certa aria di sufficienza.
Agata la fissò a lungo, quasi cercandone gli occhi in cui leggere la risposta a una domanda che da qualche ora lo stava punzecchiando.
«Adesso ho capito, la tua era tutta una tattica eh! Vecchia imbrogliona! Qui non va bene, là nemmeno. I libri no, le riviste neanche. Ti interessavano solo le vecchie foto, i miei ricordi, queste lettere.»
Pianta non rispose neanche stavolta, persa anche lei nei ricordi di Ebe, che per una decina di anni l’aveva accudita, aiutandola ogni primavera a rinnovarsi. Ebe non amava molto chiacchierare con gli umanetti, come chiamava parenti e amici: li trovava noiosi e prevedibili. Preferiva metterli alla prova con indovinelli, proverbi, rebus, quasi una caccia al tesoro per scoprirne pregi e difetti senza darlo a vedere. La vecchia amica si sarebbe divertita con Agata, l’avrebbe accompagnata passo dopo passo a quel momento, senza che lei se ne accorgesse, con caparbietà.
Agata fissò ancora per qualche istante Pianta, poi la riportò in terrazza, la rimise nella latta di conserva, accanto al solito muro:
«Goditi il sole, vecchia mia! Io esco, tornerò verso sera e ti prometto che avrò molte cose da raccontarti.»
Prese dal mucchietto delle lettere l’ultima, scritta da sua madre con una grafia un po’ tremolante: l’indirizzo non era molto lontano e decise di arrivarci a piedi, passando per le piccole vie del centro, assaporando il piacere di scoprire qualche scorcio di città che non era ancora cambiato.
«Scusa, Pianta, ma devo proprio chiederti un favore. Ho trovato un piccolo libro di poesie, che spero piacciano ancora a mia madre. Non ti dispiace, vero, se prendo una foglia delle tue come segnalibro? Così anche tu la potrai conoscere.»
Forse fu solo colpa di una folata di vento o forse era destino che Pianta perdesse proprio in quel momento una foglia, ma Agata volle credere che fosse il dono di una vecchia amica.
«Grazie, Pianta, sapevo che avresti capito. Vedrai come staremo bene assieme: avrò tante storie nuove da scrivere e tu sarai la prima ad ascoltarle.»
Quando Agata tornò era ormai sera e si sentiva un’altra persona, sollevata e serena.
Niente rimproveri per i lunghi silenzi, niente recriminazioni per essere stata assente in momenti difficili, ma un interminabile abbraccio dei suoi genitori l’avevano aiutata a scrollarsi di dosso gli ultimi dubbi.
Non era una persona insensibile agli affetti, egoista, come spesso si era trovata a giudicarsi, ma una donna che aveva voluto mettere alla prova la sua libertà, che aveva fatte sue le parole dei genitori: “La vita è la tua, fai quello che credi sia meglio per te e abbine cura”.
Erano orgogliosi di lei, l’avevano amata profondamente e compreso le ragioni del suo vagabondare, ma Agata non aveva mai dato loro l’occasione per esternare quello che provavano per questa figlia un po’ ribelle e tanto ostinata.
Si sedette accanto a Pianta, le raccontò per filo e per segno ogni momento di quella giornata così unica e irripetibile, poi si addormentò su una vecchia sdraio, stanca ma serena come non le capitava da un’eternità.
Forse fu solo la brezza della sera o magari un sogno particolarmente intenso, ma Agata ebbe nettissima l’impressione di una carezza sulla mano, una carezza che ricordava l’aprirsi di una foglia, la leggerezza di un piccolo ricciolo di edera che cerca un nuovo appiglio.
«Buona notte, Pianta e… grazie.»
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- Macchina da scrivere
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- Iscritto il: 15/12/2022, 21:05
Re: Buona notte Pianta
Ciao Susanita. Non credo proprio di avere la sensibilità di "Pianta".
Scritto davvero bene e per questo sì, ti darei la menzione di merito.
Qualche anno fa uscì un film davvero interessante, "Le vite degli altri".
Un abbraccio.
Scritto davvero bene e per questo sì, ti darei la menzione di merito.
Qualche anno fa uscì un film davvero interessante, "Le vite degli altri".
Un abbraccio.
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- Iscritto il: 31/01/2024, 7:03
Re: Buona notte Pianta
Un racconto fatto per me, come piace a me, tra l'altro con una scrittura sobria e ben calibrata.
Pianta è il personaggio, sempre se una pianta possa definirsi personaggio, che dà quel pizzico di curiosità che porta il lettore a "mangiarsi" il racconto.
Agata è un delicato e mai invadente accenno dell' io in cui ognuno di noi può immedesimarsi.
Pianta è il personaggio, sempre se una pianta possa definirsi personaggio, che dà quel pizzico di curiosità che porta il lettore a "mangiarsi" il racconto.
Agata è un delicato e mai invadente accenno dell' io in cui ognuno di noi può immedesimarsi.
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- Penna Bic
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- Iscritto il: 25/01/2024, 10:59
Re: Buona notte Pianta
Non so, Susanna, come ti sia riuscita una fiaba "reale". Conosco qualcosa che mi hai raccontato. Questo racconto è scritto bene, per me è importante, ci lavoro da matti su questo aspetto, per quanto mi riguarda. E non sempre il tuo "stare" nella realtà mi convince come autore, amo testi più fantasiosi. Ciò che mi prende di questo racconto è proprio l'aver "trasferito" il dolore "nascosto", il soccorso e la resurrezione in una pianta. Tu parli alle cose, o a una vita primitiva come una pianta, è la tua compagna e compagnia. In realtà questa pianta ti restituisce ciò di cui hai bisogno. Non ti dà veramente risposte, le cerchi nel suo defogliare o nel suo riprendersi. Di fatto parli con la tua coscienza. Di fatto dai alla pianta patente fittizia di prendere decisioni che comunque sono solamente tue. Io ho amato veramente molto questo tuo racconto.
-
- Penna Bic
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- Iscritto il: 25/01/2024, 10:59
Re: Buona notte Pianta
P.S.: "Umanetti" proprio non si può leggere.digitoergosum ha scritto: 12/03/2024, 23:28 Non so, Susanna, come ti sia riuscita una fiaba "reale". Conosco qualcosa che mi hai raccontato. Questo racconto è scritto bene, per me è importante, ci lavoro da matti su questo aspetto, per quanto mi riguarda. E non sempre il tuo "stare" nella realtà mi convince come autore, amo testi più fantasiosi. Ciò che mi prende di questo racconto è proprio l'aver "trasferito" il dolore "nascosto", il soccorso e la resurrezione in una pianta. Tu parli alle cose, o a una vita primitiva come una pianta, è la tua compagna e compagnia. In realtà questa pianta ti restituisce ciò di cui hai bisogno. Non ti dà veramente risposte, le cerchi nel suo defogliare o nel suo riprendersi. Di fatto parli con la tua coscienza. Di fatto dai alla pianta patente fittizia di prendere decisioni che comunque sono solamente tue. Io ho amato veramente molto questo tuo racconto.
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- Macchina da scrivere
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- Iscritto il: 16/12/2022, 16:29
Re: Buona notte Pianta
Questo racconto dimostra un certo mestiere nella costruzione della frase, già nelle battute iniziali: "Il vecchio appartamento fine anni ‘50, completamente ammobiliato, ingombrante eredità di un vecchio amico che voleva disfarsene in fretta, l’aveva stregata fin dal primo momento in cui vi aveva messo piede: profumo di cera per mobili, un vago sentore di lavanda, i pavimenti in graniglia, libri, suppellettili, tappeti…
In una stanza, da cui usciva un leggero sentore di naftalina, c’erano un armadio e alcuni bauli stipati di abiti, pile di vecchie riviste, alcune bambole di biscuit finemente agghindate e scatole, tante scatole ben impilate, che parevano promettere sorprese di ogni tipo. Fu proprio in quella stanza che Agata sentì di essere finalmente a casa, una sensazione tanto intensa da darle le vertigini."
Il lessico, la punteggiatura, i tempi verbali perfetti e la loro posizione. In questo modo leggere non solo è facile, ma diventa un piacere.
L'intero racconto è ambientato in un appartamento, e le riflessioni si sviluppano assecondate dalla profonda sensibilità della protagonista. Il tema è il rapporto con Pianta, e non dimenticare la virgola prima del nome, è un vocativo quando la si chiama. Ma pianta è essenzialmente una metafora. È un essere vivente di cui prendersi cura, ma non solo. È lo spirito di quella bella casa in cui, per decenni, zia Ebe ha accumulato mobili, libri, ninnoli, arredamenti, cianfrusaglie, che però riflettono ed evidenziano lo spirito di chi ci viveva, quando ancora le case erano vissute. Mettere al centro del racconto, o del romanzo, una casa non è idea certo nuova, anzi quasi tutti i grandi romanzi hanno al centro una grande casa, con quel che rappresenta per chi vi abita, e spesso la casa diventa una metafora della nostra vita. Prendersi cura della pianta per Agata significa prendersi cura della casa di Ebe, e in tal modo rinnovarne il ricordo. E quindi il titolo avrebbe potuto essere Buona notte, Ebe, perché nella pianta sopravvive lo spirito di Ebe.
Il racconto è perfetto, o quasi. Non so, forse alcuni discorsi diretti li avrei impostati in altro modo.
Questi, ad esempio: "Il giorno dopo portò la pianta in cucina, la travasò in una ciotola di coccio: (qui metti i due punti e apri i caporali. Ma con chi parla Agata? Una pianta non parla anche se reagisce alle nostre cure. Un discorso diretto peraltro appesantisce la narrazione. Io avrei scritto.
E le aveva detto che l'avrebbe chiamata Pianta.
Per proseguire come fosse un monologo interiore. Non una voce, ma un pensiero. Lo so, in questo caso la differenza è molto sottile, però a me è piaciuta immaginarla così. Ecco qua, del buon terriccio nuovo, o almeno spero sia buono: non l’ho assaggiato, ma l’aspetto è appetitoso! Ti piace la battuta? No (,) vero? Neanche a me! E ora un bel sottovaso e voilà, in salotto. Perfetto: poltrona, libri, Pianta. Adesso scusa, ma ho da fare.
Secondo me l'assenza di caporali conferisce più ritmo alla narrazione. È solo un'idea.
A rileggerti, spero.
In una stanza, da cui usciva un leggero sentore di naftalina, c’erano un armadio e alcuni bauli stipati di abiti, pile di vecchie riviste, alcune bambole di biscuit finemente agghindate e scatole, tante scatole ben impilate, che parevano promettere sorprese di ogni tipo. Fu proprio in quella stanza che Agata sentì di essere finalmente a casa, una sensazione tanto intensa da darle le vertigini."
Il lessico, la punteggiatura, i tempi verbali perfetti e la loro posizione. In questo modo leggere non solo è facile, ma diventa un piacere.
L'intero racconto è ambientato in un appartamento, e le riflessioni si sviluppano assecondate dalla profonda sensibilità della protagonista. Il tema è il rapporto con Pianta, e non dimenticare la virgola prima del nome, è un vocativo quando la si chiama. Ma pianta è essenzialmente una metafora. È un essere vivente di cui prendersi cura, ma non solo. È lo spirito di quella bella casa in cui, per decenni, zia Ebe ha accumulato mobili, libri, ninnoli, arredamenti, cianfrusaglie, che però riflettono ed evidenziano lo spirito di chi ci viveva, quando ancora le case erano vissute. Mettere al centro del racconto, o del romanzo, una casa non è idea certo nuova, anzi quasi tutti i grandi romanzi hanno al centro una grande casa, con quel che rappresenta per chi vi abita, e spesso la casa diventa una metafora della nostra vita. Prendersi cura della pianta per Agata significa prendersi cura della casa di Ebe, e in tal modo rinnovarne il ricordo. E quindi il titolo avrebbe potuto essere Buona notte, Ebe, perché nella pianta sopravvive lo spirito di Ebe.
Il racconto è perfetto, o quasi. Non so, forse alcuni discorsi diretti li avrei impostati in altro modo.
Questi, ad esempio: "Il giorno dopo portò la pianta in cucina, la travasò in una ciotola di coccio: (qui metti i due punti e apri i caporali. Ma con chi parla Agata? Una pianta non parla anche se reagisce alle nostre cure. Un discorso diretto peraltro appesantisce la narrazione. Io avrei scritto.
E le aveva detto che l'avrebbe chiamata Pianta.
Per proseguire come fosse un monologo interiore. Non una voce, ma un pensiero. Lo so, in questo caso la differenza è molto sottile, però a me è piaciuta immaginarla così. Ecco qua, del buon terriccio nuovo, o almeno spero sia buono: non l’ho assaggiato, ma l’aspetto è appetitoso! Ti piace la battuta? No (,) vero? Neanche a me! E ora un bel sottovaso e voilà, in salotto. Perfetto: poltrona, libri, Pianta. Adesso scusa, ma ho da fare.
Secondo me l'assenza di caporali conferisce più ritmo alla narrazione. È solo un'idea.
A rileggerti, spero.
Re: Buona notte Pianta
Grazie per i suggerimenti: a volte basta davvero poco per ottenere più attenzione, ma chi scrive ha in testa quello e quello rimane.